Le opere in concorso

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    someone is the table, someone else is the boss...

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    Postate qui di seguito i vostri lavori.

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    grazie :)
     
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    Vittorio Matteucci Admin


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    Parcheggio l’auto nel viale alberato che costeggia il Politecnico. A destra, la facoltà di chimica. E’ proprio grazie a questa che ho scoperto questo viale, prima mi soffermavo solo sulla facciata sulla piazza.
    Attraverso la strada e attendo pazientemente il 32.
    Pazientemente, o forse in modo semplicemente neutro. Non amo attendere i mezzi, ma qualunque cosa io faccia o pensi, non posso in alcun modo cambiare il fatto che arriveranno indipendentemente dalla mia volontà e dai miei impegni.
    Il tram giallo e rosso arriva. Bene, è ancora uno di quelli vecchi! Certo con la metro farei molto prima, ma dovrei scendere e correre lungo i corridoi (in metro si va sempre di corsa) e inscatolarmi nel lungo lombrico d’acciaio attraverso le gallerie sotterranee.
    Meglio il tram che mi fa vedere un tratto di città e con un po’ di fortuna anche qualche minuto della vita di qualcun altro.
    Ho fortuna, non è pieno, quindi mi posso sedere e guardare chi ho di fronte.
    Partiamo e sfioro con la mano le panche di legno lucido.
    Troppo lucido, quasi vetrificato.
    Di sicuro li hanno trattati col coppale (oggi si direbbe “flatting”). Penso all’impiegato tutto-fare dell’azienda in cui ho fatto una consulenza: mi diceva che il flatting non lo usa nessuno, adesso va l’impregnante, quello che non sembra nemmeno ci sia, ma non fa uno strato lucido e si consuma pian piano scoprendo il legno, senza sfogliarsi. Qui non ci sono intemperie a consumarlo, ma lo sfregamento di tante sedute. Di sicuro non è impregnante, è coppale.
    Sorrido un po’ al pensiero dell’impiegato, solo tutto il giorno a sistemare bolle e ordini, mentre l’unico altro impiegato si occupa di magazzino e consegne, ma comunque contento del suo lavoro nell’ufficio non riscaldato.
    Il tram si ferma e le porte si aprono permettendo l’ordinato flusso in ingresso e uscita.
    TU-TUM
    L’ho sentito distintamente.
    TU-TUM
    Ancora.
    TU-TUM
    Sembra tutto normale.
    Ripartiamo.
    Nessuno ha sentito nulla, pare. Non l’uomo in piedi aggrappato al sostegno vicino alla porta, non il ragazzo con le cuffie (e come potrebbe, lui?), non la ragazza che manda sms, non la signora con il sacco di cartone da abiti di lusso. Nemmeno i due anziani con le sporte della spesa. Tutti intenti a continuare il proprio viaggio e i propri pensieri.
    Fermata.
    TU-TUM
    Inequivocabile.
    TU-TUM
    Di nuovo.
    TU-TUM
    Ancora nessuno ha sentito.
    Mi piacciono molto le mezze stagioni, quelle che in teoria non esistono più, ma nella realtà di finti inverni e finte estati, si stanno dilatando. Mi piacciono perché sono indefinite, perché sono soggette a libera interpretazione.
    TU-TUM
    Sarà il meccanismo delle porte?
    TU-TUM
    Sembra che si debbano schiantare tutti i giunti.
    TU-TUM
    Ma lo sento solo io?
    L’anarchia dell’abbigliamento. Usciti dall’assolutismo dell’inverno, coi suoi piumini ben chiusi, e ancora non nella dittatura del caldo, con il minimo quantitativo di stoffa addosso, siamo nel momento della massima soggettività. Qualcuno ancora con giacche pesanti, portate aperte se sono solo sintomo di un ritardo del cambio dell’armadio, portate chiuse se il corpo non si è ancora adattato al clima diverso ed è convinto di essere ancora nel freddo. Altri in maniche corte, smaniosi di aprire le braccia all’estate futura e perfettamente disinvolti, anche sotto gli sguardi poco convinti dei primi.
    TU-TUM
    Eccolo.
    TU-TUM
    Viene dal pavimento?
    TU-TUM
    Tutto normale per gli altri.
    Poi ci sono quelli che hanno il capo giusto per ogni stagione. Un giubbino di mezzo peso. Sempre lo stesso, di colore neutro, solitamente blu, per chi pensando che si usi poco ogni anno (ricordiamoci che non esistono più le mezze stagioni) ha preferito comprarne uno che non passi di moda. Ci sono anche quelli che indossano il colore dell’anno prima, perché non vogliono comprarne uno all’anno, oppure l’hanno comprato in saldo a fine stagione. E quelli sempre alla moda, che ogni anno cambiano l’armadio e una cosa dell’anno precedente proprio non la indossano più. Chissà se accumulano o se regalano ad ogni fine stagione. Se regalassero sempre ad una stessa persona ci sarebbe qualcun altro sempre alla moda, solo sfasato di un anno.
    TU-TUM
    Rieccolo.
    TU-TUM
    Probabilmente proprio dal pavimento.
    TU-TUM
    Ma non se ne accorge nessuno.
    Le scarpe, poi, sono ancora più divertenti. Calze sì, calze no. Aperte, chiuse, stivali. Su quelle l’anarchia va avanti tutto l’anno: sandali in pieno inverno (eh, ma sono eleganti!), stivaletti in piena estate (è un materiale freschissimo!). Come si faccia a star bene con le scarpe aperte a zero gradi, o con stivaletti ben chiusi a trenta gradi è solo un mistero. Ma forse è lo stesso mistero che fa funzionare i placebo e si chiama semplicemente psiche. Che è un mistero, in effetti.
    TU-TUM
    Ci siamo.
    TU-TUM
    No, va capito da dove viene.
    TU-TUM
    Nessuna reazione.
    La città mi passa davanti. Anzi, ad essere precisi dietro, visto che do le spalle ai finestrini, e quelli di fronte non mi permettono visuale. Mi siedo un po’ di traverso per guardare fuori. La giornata è di sole e col sole è sempre tutto più bello, anche lo squallore. Ma questa è una città viva, dinamica, bellissima. E stiamo attraversando una zona centrale, con i suoi palazzi austeri ed eleganti e le sue strade larghe. Il tribunale, famosissimo ed inconfondibile. Tutto scorre velocemente, ma non tanto da non permettermi di entrare per qualche istante nella vita del luogo.
    TU-TUM
    Ancora
    TU-TUM
    Sicuramente legato a qualcosa durante la fermata.
    TU-TUM
    Si riparte.
    La città è viva e pulsante. Non l’ho mai vista ferma, non l’ho mai vista inerte, non l’ho mai vista annoiata. Come se un’invisibile spinta l’abbia messa in moto in epoche passate e l’inerzia di quella spinta non si sia mai esaurita. Viaggiamo veloci sui binari senza essere toccati dal traffico che ci scorre ai lati. Traffico di auto, traffico di pedoni, di qualche bicicletta.
    Scorriamo in mezzo verso la nostra meta, verso la mia meta.
    TU-TUM
    Ritmico e regolare.
    TU-TUM
    Un battito di un enorme cuore d’acciaio.
    TU-TUM
    Non importa che non lo senta nessuno, forse sono abituati, non sono forestieri come me. Ma io lo sono? La città è pulsante e il tram pulsa insieme a lei. Forse il rumore del motore in movimento copre questo battito, forse è il riflesso del battito esterno, che entra soltanto con le porte aperte. Forse il battito si accorda a quello della città ed aumenta da fermi, per non perdere il ritmo.
    Forse, certo, è il suono dei giunti che tengono le porte aperte.
    Forse…
    Ecco la fermata che mi interessa. Stavolta non sento il battito, devo scendere.
    Mi guardo intorno, mi avvio. Attraverso la piazza. Il suo nome è noto, purtroppo tristemente.
    Giro un angolo.
    So che c’è, me lo aspetto.
    Ma appare all’improvviso ed è un colpo.
    Maestoso, unico, bellissimo, amatissimo, Duomo.
     
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  3. Camomilla05
     
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    Once a gaijin, always a gaijin.

    Erano anni che desideravo di salire su quell’aereo, eppure in quel momento ero bloccata. La paura di volare fa brutti scherzi, certo, ma non era solo quella. Era la mia testa che mi mandava un segnale chiaro: “Non andare, e se rimanessi delusa? e se scoprissi di aver sbagliato tutto?.” Già, se fossi arrivata dall’altra parte del mondo solo per poi scoprire che il Giappone non era il posto per me, sarebbe stata una delusione cocente.
    Non c’era tempo per dare peso a dubbi dell’ultimo minuto, dovevo andare al gate, dovevo affrontare la possibilità di dover rimettere in discussione le mie scelte. Insicura, impaurita e soprattutto da sola, ma ci dovevo andare.
    E lì sembrava di essere già di essere arrivata a destinazione: passeggeri ordinatamente in fila e hostess che continuavano ad inchinarsi e scusarsi perché saremmo partiti con un leggero ritardo. Mi sentivo già un pesce fuor d’acqua, eppure il viaggio doveva ancora cominciare.
    Tra mille inchini e “le auguriamo un buon viaggio” in un inglese stentato, ero già intenta ad allacciarmi la cintura sul gigantesco boeing a due piani della Japan Airlines, ma i miei pensieri non mi lasciavano in pace.
    Dopo 13 lunghissime ore di tensione era finalmente arrivato il momento della verità, sarei riuscita a mettere insieme due parole di quella lingua che tanto mi aveva affascinata da piccola? Apparentemente no, prima ti insegnano a parlare come un libro stampato e poi in un attimo ti accorgi che la lingua parlata è un’altra. Ok, proviamo con l’inglese? ancora peggio, perché giustamente, l’addetto dell’immigrazione di uno dei più grandi aeroporti del mondo non parlava la lingua della globalizzazione. Alla fine credo che mi abbiano lasciata andare per sfinimento. “E’ una stupida gaijin”, una straniera, avranno pensato.

    La mia prima notte in Giappone l’ho trascorsa in un minuscolo albergo accanto all’aeroporto. Di dormire non se ne parlava perché, jet lag a parte, ero fascio di nervi, non riuscivo a comunicare, avevo problemi a chiamare casa e i miei vicini di camera si facevano compagnia un po’ troppo rumorosamente. Per tutta la notte. “Ma chi me lo ha fatto fare!”, mi continuavo a ripetere fissando l’orologio nella speranza che arrivasse subito l’alba.

    La mattina seguente ero di nuovo di cattivo umore, ma stavolta perché sarei andata in città da sola e non sapevo cosa aspettarmi. Avrei usato i treni per la prima volta, avrei sperimentato cosa vuol dire essere spinta dentro al vagone dall’addetto con i guanti bianchi e, durante il tragitto, essere stretti come sardine.
    La stazione era stracolma di gente, tutti in fila come tante formiche dietro delle righe gialle in prossimità del binario, perché quando arriva il treno è lì che si aprono le porte del vagone, proprio in quel punto preciso. Si lasciano scendere i passeggeri e si sale rispettando la fila. Proprio come a Roma, identico. Primo cultural shock, “ma allora è vero che i giapponesi sono rispettosi delle regole”, mi ripetevo tra me e me, prima di notare che nonostante il vagone fosse pieno fino all’inverosimile, attorno a me si era creato il vuoto. “Magari ho dimenticato di mettere il deodorante? ho una macchia di caffè da qualche parte?” invece no, più semplicemente la distanza e lo sguardo di disgusto erano dovuti al fatto che le donne non usano portare le spalle scoperte, neanche a luglio con 40 gradi. Ovviamente, la regola vale anche per le gaijin. Secondo cultural shock nel giro di mezz’ora, andiamo bene, proprio bene.

    Arrivata nell’antico quartiere di Jimbocho, conosciuto per i suoi negozi di libri, si cominciava ad intravedere la Tokyo che conosciamo dalla televisione: grattacieli, insegne colorate, treno che mi passava sopra la testa, la modernità che convive pacificamente con altari in pietra e templi di legno laccato di rosso e nero disseminati qua e là. Il sacro accanto al profano non stride, ma meraviglia gli occhi del turista occidentale.

    Di certo non passavo inosservata in una folla di salarymen in pantaloni neri, camicia bianca e valigetta nera. Praticamente ero una macchia di colore in mezzo un esercito di replicanti in marcia, verso un ufficio grigio in cui, a voler essere ottimisti, avrebbero passato 12 ore della loro giornata. Sembrava di essere dentro un film, un po’ come in Lost in Translation, ma sfortunatamente non ero e non sono Scarlett Johansson.

    Tutto intorno, Tokyo e i suoi stereotipi: la timida ragazza vestita da gothic lolita, la signora chic che profuma di ricchezza, la vecchietta in kimono appena tornata dal tempio.
    Gli studenti usciti da scuola, quelli che vediamo sempre negli anime, erano proprio come ce li hanno raccontati: i ragazzi, in divise blu scuro con colletto alla coreana, erano di ritorno dalle loro attività di club pomeridiano, probabilmente si trattava di kendo considerando l’oggetto lungo che sporgeva vistosamente dalle loro borse. Erano sorridenti, magari l’allenamento era andato bene.
    Le ragazze erano vestite alla marinaretta ma solo le più carine avevano la gonna cortissima. Per il resto, una cosa le accomunava: la borsa della scuola decorata con peluche rosa, e un’artefatta e raccapricciante vocina da bambina. Se l’obiettivo era essere kawaii, allora hanno fallito, anche perché quella è solo una facciata del canone di bambolina di porcellana che tanto piace ai maschi giapponesi. Poi sotto sotto quelle menano, ne sono sicura.
    Tutti cercano di trovare la loro identità, un gruppo in cui sentirsi accettati. Alla fine siamo tutti uguali, eppure così diversi.

    Non è difficile perdersi a Tokyo, le strade sembrano tutte identiche e le insegne accecanti al neon non fanno che aumentare la sensazione di sentirsi disorientati. Chiedere indicazioni voleva dire fare un buco nell’acqua, perché i giapponesi facevano finta che fossi invisibile e andavano via, a volte addirittura impauriti. Dovevo solo abituarmi all’idea di essere una gaijin, ma non era per niente facile, specialmente quando capitava di essere fissati come gli animali allo zoo, o quando mi sedevo nell’unico posto vuoto in metro e le signore accanto si alzavano per andare a sedersi più lontano. Sentirsi rifiutati in maniera così diretta fa male, ma fa anche riflettere perché consente di capire cosa si prova a stare dall’altra parte, perché in Giappone noi siamo “il diverso”, l’extracomunitario. Allora se i miei primi giorni sono stati scanditi da una ferrea attenzione alle regole al fine di ridurre al minimo queste orribili sensazioni di rifiuto, poi mi sono resa conto che non è possibile né tantomeno giusto cancellare la mia identità per essere accettata. Anche perché non accadrà mai, infatti come mi è stato spesso detto: once a gaijin, always a gaijin.

    Ecco che alla fase di accettazione (o rassegnazione?) si passa a quella di una spontaneità pur sempre consapevole e rispettosa delle norme sociali e quando si viene premiati con un saluto o sorriso, è bellissimo.

    “Ho deciso di perdermi nel mondo, anche se sprofondo” diceva Morgan nella sua “Altrove” e nonostante mi sia sentita spesso sprofondare, dopo tutto il Giappone è ancora il paese che amo.
     
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  4. Hadesdump
     
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    Microfono aperto tra trenta secondi; i tecnici avvisano sempre con troppo anticipo. Questi trenta secondi sono sempre i peggiori: non si parla già più, perché chissà cosa potrebbe succedere, un errore dalla regia e il pubblico sentirà il tuo balbettare ansimante o il battito cardiaco accelerato. Perciò stiamo tutti in silenzio, nessuno si guarda, gli occhi fissi al pavimento: c'è una sbarra smontata dentro alla quinta, utile, sicuramente ci inciamperò prima di entrare; e i fari in basso mi paiono già troppo accecanti, magari andranno pure a illuminare la macchia di fondotinta che mi è caduta sulla scarpa da tip-tap, un doloroso incidente (lo struccante rovinerà la pelle nera?).

    Ho lo stomaco sottosopra e mi viene da tossire. Mai tossire prima di cantare, regola numero uno: far finta di ingoiare piuttosto. La gonna mi sta leggermente larga e mi scivola un po' sui fianchi: bene, la dieta sta funzionando, anche se preferivo che mi stesse bella stretta in vita. Devo comunque ricordarmi di stringerla. Comincio a sentirmi il cuore gonfio, come se si stesse allargando per cercare di comprimere tutte le emozioni che risalgono a galla tutte le volte che mi trovo dietro alla quinta, aspettando di entrare sul palco. Amo e odio questo posto: l'odore della pece, delle scarpe nuove, il calore dei riflettori e il silenzio. Amo e odio il silenzio, perché l'unica cosa che ti rimane da fare, nel silenzio, è pensare.

    E è buffo il fatto che la prima cosa che penso è se lui ci sia, eppure è terribilmente vero. Certo che non c'è; solo io ci spero a questo punto. C'è mia madre in lacrime, mio padre molto fiero, mia sorella molto emozionata, i miei amici più stretti, che sono i miei fan migliori. Ma lui no, lui non c'è, e devo accettarlo, anche se il cuore sale alla gola e lo sento pulsare sempre di più. I ricordi si sovrastano l'uno sull'altro nella mia mente, offuscandola di quel grigio fumo tipico delle brutte memorie. Sto per piangere. Mi giro verso M., che è impegnata a pensare ai fatti suoi, ma appena incrocia il mio sguardo capisce tutto: mima un no secco. Ha ragione: ancora ci penso? Probabilmente è fuori a cena con la sua nuova ragazza (quella bionda, alta e magra). Va bene, bionda e alta e magra: ma io ho i capelli scuri e gli occhi più espressivi dei suoi, e per certi versi sono più affascinante; però dovevo capire che a lui piacevano le bionde e le alte. E io non sono nessuna delle due. Ma perché le piacciono le bionde alte? Sono settimane che la domanda è sempre la stessa, e forse trovare una risposta sarebbe anche peggio. Sento ciò che abbiamo vissuto io e lui scivolarmi via dall'anima, e vedo davanti a me, al posto del palco, al posto del riflettore basso e della sbarra smontata, i sogni e le paure che abbiamo condiviso: si sovrappongono tra loro, scalano quella montagna appoggiandosi l'uno sull'altro per darsi stabilità, cancellando tutte le ostilità che trovano sul loro cammino; ci sono le nostre passioni, le nostre felicità, i nostri pensieri e le nostre dolcezze; ci sono i litigi, i fraintendimenti, le bugie; e poi i nostri baci, coi loro sorrisi, e i luoghi che usavamo frequentare. E infine, nascosta sotto a quelle complesse pennellate, ci sono io: io sola, dietro a una stupida quinta, in procinto di interpretare una stupida ragazzina innamorata. Lascia perdere, mi viene da dirle; tanto lui troverà una bionda. E tu soffrirai, soffrirai da matti.

    M. mi tocca una spalla; ancora i microfoni dovrebbero essere spenti, ma mi parla come se fossi sordomuta. Il messaggio è comunque chiaro: un non ci pensare chiaro e tondo, una dura imposizione che limita la mente ai soli pensieri che riguardano lo spettacolo. Pensa di essere Sophie. Honey honey, how you thrill me, ah ah, honey honey! Eh sì, lui mi thrilla tanto, ma è finita. E probabilmente è finita per sempre.

    Forse M. ha ragione. Mi trovo nel posto che più amo al mondo, il palcoscenico. L'unico posto in cui sono sempre felice, indipendentemente dal mio stato d'animo: qui sono ciò che voglio senza stravolgere ciò che realmente sono; tutto qui mi dà la carica per essere felice. Il palco è il posto dove si sceglie chi essere, e io so benissimo cosa scegliere. Le pennellate del mio amore perduto sbiadiscono nella mia mente, insieme al grigio fumo della tristezza. Come se avessi appena ricevuto una rivelazione divina, rimuovo dai miei occhi tutto ciò che vi ho proiettato, commossa della mia intelligenza, grazie alla quale ho capito davvero ciò che è importante. Andrò avanti per la mia strada e sarò una grande artista; comincerò a vivere la mia vita da questo esatto momento. Appena finito lo spettacolo dirò a quel ragazzo, senza paure e timidezze, che ci ho ripensato e che mi farebbe piacere uscire con lui, cancellerò quella canzone piena di ricordi dall'iPod e comprerò quelle nuove scarpe da tip tap che desidero da tempo, che ho visto nel solito negozietto sotto casa. Fortunatamente è troppo tardi per stare a rimuginare sul fatto che appena uscirò dal teatro tutta questa magia svanirà: i trenta secondi sono finiti e il sipario si apre. Entro e mi sistemo sulla panchina, al buio. E inizia lo spettacolo: e anche se lui non c'è, ci sono molte altre persone. Ho diciotto anni e un futuro davanti. Partono già gli applausi nella mia testa, perché qui, comunque sia la vita fuori dal teatro, so di essere amata.
     
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3 replies since 6/5/2014, 13:32   101 views
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