| Parcheggio l’auto nel viale alberato che costeggia il Politecnico. A destra, la facoltà di chimica. E’ proprio grazie a questa che ho scoperto questo viale, prima mi soffermavo solo sulla facciata sulla piazza. Attraverso la strada e attendo pazientemente il 32. Pazientemente, o forse in modo semplicemente neutro. Non amo attendere i mezzi, ma qualunque cosa io faccia o pensi, non posso in alcun modo cambiare il fatto che arriveranno indipendentemente dalla mia volontà e dai miei impegni. Il tram giallo e rosso arriva. Bene, è ancora uno di quelli vecchi! Certo con la metro farei molto prima, ma dovrei scendere e correre lungo i corridoi (in metro si va sempre di corsa) e inscatolarmi nel lungo lombrico d’acciaio attraverso le gallerie sotterranee. Meglio il tram che mi fa vedere un tratto di città e con un po’ di fortuna anche qualche minuto della vita di qualcun altro. Ho fortuna, non è pieno, quindi mi posso sedere e guardare chi ho di fronte. Partiamo e sfioro con la mano le panche di legno lucido. Troppo lucido, quasi vetrificato. Di sicuro li hanno trattati col coppale (oggi si direbbe “flatting”). Penso all’impiegato tutto-fare dell’azienda in cui ho fatto una consulenza: mi diceva che il flatting non lo usa nessuno, adesso va l’impregnante, quello che non sembra nemmeno ci sia, ma non fa uno strato lucido e si consuma pian piano scoprendo il legno, senza sfogliarsi. Qui non ci sono intemperie a consumarlo, ma lo sfregamento di tante sedute. Di sicuro non è impregnante, è coppale. Sorrido un po’ al pensiero dell’impiegato, solo tutto il giorno a sistemare bolle e ordini, mentre l’unico altro impiegato si occupa di magazzino e consegne, ma comunque contento del suo lavoro nell’ufficio non riscaldato. Il tram si ferma e le porte si aprono permettendo l’ordinato flusso in ingresso e uscita. TU-TUM L’ho sentito distintamente. TU-TUM Ancora. TU-TUM Sembra tutto normale. Ripartiamo. Nessuno ha sentito nulla, pare. Non l’uomo in piedi aggrappato al sostegno vicino alla porta, non il ragazzo con le cuffie (e come potrebbe, lui?), non la ragazza che manda sms, non la signora con il sacco di cartone da abiti di lusso. Nemmeno i due anziani con le sporte della spesa. Tutti intenti a continuare il proprio viaggio e i propri pensieri. Fermata. TU-TUM Inequivocabile. TU-TUM Di nuovo. TU-TUM Ancora nessuno ha sentito. Mi piacciono molto le mezze stagioni, quelle che in teoria non esistono più, ma nella realtà di finti inverni e finte estati, si stanno dilatando. Mi piacciono perché sono indefinite, perché sono soggette a libera interpretazione. TU-TUM Sarà il meccanismo delle porte? TU-TUM Sembra che si debbano schiantare tutti i giunti. TU-TUM Ma lo sento solo io? L’anarchia dell’abbigliamento. Usciti dall’assolutismo dell’inverno, coi suoi piumini ben chiusi, e ancora non nella dittatura del caldo, con il minimo quantitativo di stoffa addosso, siamo nel momento della massima soggettività. Qualcuno ancora con giacche pesanti, portate aperte se sono solo sintomo di un ritardo del cambio dell’armadio, portate chiuse se il corpo non si è ancora adattato al clima diverso ed è convinto di essere ancora nel freddo. Altri in maniche corte, smaniosi di aprire le braccia all’estate futura e perfettamente disinvolti, anche sotto gli sguardi poco convinti dei primi. TU-TUM Eccolo. TU-TUM Viene dal pavimento? TU-TUM Tutto normale per gli altri. Poi ci sono quelli che hanno il capo giusto per ogni stagione. Un giubbino di mezzo peso. Sempre lo stesso, di colore neutro, solitamente blu, per chi pensando che si usi poco ogni anno (ricordiamoci che non esistono più le mezze stagioni) ha preferito comprarne uno che non passi di moda. Ci sono anche quelli che indossano il colore dell’anno prima, perché non vogliono comprarne uno all’anno, oppure l’hanno comprato in saldo a fine stagione. E quelli sempre alla moda, che ogni anno cambiano l’armadio e una cosa dell’anno precedente proprio non la indossano più. Chissà se accumulano o se regalano ad ogni fine stagione. Se regalassero sempre ad una stessa persona ci sarebbe qualcun altro sempre alla moda, solo sfasato di un anno. TU-TUM Rieccolo. TU-TUM Probabilmente proprio dal pavimento. TU-TUM Ma non se ne accorge nessuno. Le scarpe, poi, sono ancora più divertenti. Calze sì, calze no. Aperte, chiuse, stivali. Su quelle l’anarchia va avanti tutto l’anno: sandali in pieno inverno (eh, ma sono eleganti!), stivaletti in piena estate (è un materiale freschissimo!). Come si faccia a star bene con le scarpe aperte a zero gradi, o con stivaletti ben chiusi a trenta gradi è solo un mistero. Ma forse è lo stesso mistero che fa funzionare i placebo e si chiama semplicemente psiche. Che è un mistero, in effetti. TU-TUM Ci siamo. TU-TUM No, va capito da dove viene. TU-TUM Nessuna reazione. La città mi passa davanti. Anzi, ad essere precisi dietro, visto che do le spalle ai finestrini, e quelli di fronte non mi permettono visuale. Mi siedo un po’ di traverso per guardare fuori. La giornata è di sole e col sole è sempre tutto più bello, anche lo squallore. Ma questa è una città viva, dinamica, bellissima. E stiamo attraversando una zona centrale, con i suoi palazzi austeri ed eleganti e le sue strade larghe. Il tribunale, famosissimo ed inconfondibile. Tutto scorre velocemente, ma non tanto da non permettermi di entrare per qualche istante nella vita del luogo. TU-TUM Ancora TU-TUM Sicuramente legato a qualcosa durante la fermata. TU-TUM Si riparte. La città è viva e pulsante. Non l’ho mai vista ferma, non l’ho mai vista inerte, non l’ho mai vista annoiata. Come se un’invisibile spinta l’abbia messa in moto in epoche passate e l’inerzia di quella spinta non si sia mai esaurita. Viaggiamo veloci sui binari senza essere toccati dal traffico che ci scorre ai lati. Traffico di auto, traffico di pedoni, di qualche bicicletta. Scorriamo in mezzo verso la nostra meta, verso la mia meta. TU-TUM Ritmico e regolare. TU-TUM Un battito di un enorme cuore d’acciaio. TU-TUM Non importa che non lo senta nessuno, forse sono abituati, non sono forestieri come me. Ma io lo sono? La città è pulsante e il tram pulsa insieme a lei. Forse il rumore del motore in movimento copre questo battito, forse è il riflesso del battito esterno, che entra soltanto con le porte aperte. Forse il battito si accorda a quello della città ed aumenta da fermi, per non perdere il ritmo. Forse, certo, è il suono dei giunti che tengono le porte aperte. Forse… Ecco la fermata che mi interessa. Stavolta non sento il battito, devo scendere. Mi guardo intorno, mi avvio. Attraverso la piazza. Il suo nome è noto, purtroppo tristemente. Giro un angolo. So che c’è, me lo aspetto. Ma appare all’improvviso ed è un colpo. Maestoso, unico, bellissimo, amatissimo, Duomo. |
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